Quella che vorrei proporre oggi non è una mia riflessione, ma di Michele Smargiassi, giornalista di La Repubblica, da anni si occupa di storia e cultura della fotografia e nel suo libro Un’autentica bugia – La fotografia, il vero, il falso ha spiegato in maniera esemplare come il poter produrre tante fotografie grazie al digitale non sia un sinonimo di qualità, anzi, spesso è il contrario.
Il primo elemento materiale capace di influire sulla creazione di un’immagine è la capienza della borsa del fotografo. La disponibilità di materiale (la sua penuria o abbondanza, il suo costo e quindi la disponibilità a consumarlo in misura più o meno generosa) condiziona non solo la quantità di immagini che verranno prodotte, ma anche la loro qualità. Tra i pionieri dell’età del collodio umido, quando la scorta di lastre è drasticamente contenuta dal loro peso e dalla necessità di sviluppo immediato, la consapevolezza di poter contare su un “magazzino” limitato spinge a selezionare i soggetti fotografabili col criterio del successo assicurato, quindi: illuminazione massima, margine di effetti limitatissimo, esclusione di qualsiasi posa a rischio e di qualsiasi esperimento formale di esito non garantito. Costrizioni che ci hanno lasciato splendide, composte, studiatissime, ieratiche immagini del monumenti egiziano e dei paesaggi orientali che però, fondamentalmente, sembrano scattate tutte da un solo autore. Quando però nel 1888 esplode la rivoluzione della pellicola a rullo, il medico e fotografo francese Albert Londe intuisce che il maggior respiro non garantirà una maggiore resa, anzi:
L’amatore che per un’esclusione non porterà con sè che sei lastre le saprà amministrare con saggezza e porterà certamente indietro sei clichè studiati e quindi interessanti. Se disporrà di una riserva di 24 o anche di 48 pose, è da credere che ne sprecherà a destra e a manca, per scoprire al ritorno che la maggior parte delle immagini sono mediocri perchè realizzate in fretta. (GUNTHERT 2004, 133)
Tra i reporter di vecchia scuola è nota e temuta quella variante della legge di Murhphy per cui l’”istante decisivo” ti si para davanti all’obiettivo nel momento esatto in cui hai finito il rullino. La precauzione di “tenere sempre uno scatto di riserva”, e magari di cambiare rullino nei momenti tranquilli anche se non sono stati impressionati tutti i fotogrammi, è tra i fotografi dell’analogico un’abitudine che ha forte influenza sulle decisioni di scatto. L’enorme capienza delle schede di memoria numerica, l’indifferenza del costo della singola immagine, la possibilità di liberare spazio con poche digitazioni cancellando le immagini inutili sta probabilmente orientando la propensione dei fotografi allo scatto sovrabbondante. Diventa molto più conveniente “mitragliare” la scena e poi scegliere il fotogramma migliore, piuttosto che attendere nervosamente il momento culmine. Per usare una metafora venatoria, la transizione dall’analogico al digitale somiglia a quella tra la caccia di passo e l’uccellagione con la rete. Sulla tavola, è chiaro, il menù di cacciagione sarà ben diverso nei due casi.
Smargiassi M. (2009). Un’autentica bugia – La fotografia, il vero, il falso. Roma: Contrasto, 118
*l’utilizzo del grassetto non è presente nella versione originale ma me ne sono voluto servire per sottolineare le parti a mio parere più significative.
Ringrazio Michele Smargiassi per avermi permesso di pubblicare un estratto del suo libro sul mio blog.